mercoledì 10 maggio 2017

SLOMATICS: da Belfast alla conquista del mondo (interview)

Al termine del loro set al Roadburn Festival 2017 - Foto di JJ Koczan

Uno dei tanti punti di forza del Roadburn Festival è indubbiamente la possibilità di assistere a concerti di band estremamente difficili da intercettare live in altri contesti. Come gli Slomatics: difficilmente i tre irlandesi hanno suonato fuori dal Regno Unito e aspettavamo quindi con ansia la possibilità di poter valutare di persona l'impatto del loro muro sonoro, soprattutto alla luce del loro ennesimo ottimo album Future Echo Returns (da noi qui recensito) e dell'anno campale che sembra stiano attraversando i tre di Belfast, visto che, oltre all'annuale edizione del festival più bello del mondo, sono stati invitati ad esibirsi anche al prossimo Psycho Las Vegas. Quella che segue è la chiaccherata avuta con Marty (voce e batteria), David (chitarra) e Chris (chitarra) proprio durante il giorno della loro esibizione al Roadburn. Buona lettura!

Benvenuti ragazzi! Innanzitutto, credo che questa sia la vostra prima volta al Roadburn. Come ci si sente ad essere parte dell’edizione di quest’anno?

Sì, è la nostra prima volta. Lo staff è fantastico ed è meraviglioso essere qui, è tutto così professionale e amichevole al tempo stesso. Ci sono molte facce a noi familiari che suonano, abbiamo incontrato molti dei nostri amici… l’aspetto sociale è buono quanto quello musicale.

Inoltre, quest’anno siete stati anche invitati allo Psycho Las Vegas, immagino sia un'ottima annata per voi.

Beh, è entusiasmante essere in entrambi i festival nello stesso anno. Non suoniamo molto spesso, visti gli impegni con la nostra vita di tutti i giorni, ma essere invitati in queste occasioni è eccezionale. Non facendo dei veri e propri tour non pensavamo che saremmo mai riusciti a suonare in America, vista la distanza che ci separa. Quando ci hanno scritto la mia prima risposta è stata “grazie per l’invito, ma… viviamo in Irlanda”. Eravamo increduli, pensavamo avessero sbagliato band (risate).

Mi sembra che Future Echo Returns abbia incontrato un sacco di responsi positivi.

Sì, le reazioni all’album sono state fantastiche, sicuramente Jon con la Black Bow Records ha fatto un ottimo lavoro di promozione facendo arrivare il disco in posti in cui difficilmente l’avrebbero ascoltato.

Immagino abbiate un forte legame con i ragazzi dei Conan, avete fatto uno split con loro, siete sull’etichetta del loro cantante…

In realtà va avanti da tempo, penso che Jon sia stata la prima persona non proveniente dall’Irlanda a supportarci. Stiamo parlando del 2004 ed è fantastico vedere cosa siano diventati adesso i Conan, considerato che all’epoca ci scriveva delle sue intenzioni di mettere su una band.

Beh, non per nulla Jon vi cita anche spesso come una grossa influenza per il loro sound.

Sì, dovremmo pagarlo per tutta pubblicità che ci fa, è quasi imbarazzante. I Conan sono una band ormai molto accreditata, noi siamo comunque rimasti tre ragazzi di Belfast che si incontrano il mercoledì sera per provare in un garage… è un’ottima persona.

Ho letto che si unirà anche a voi per un brano stasera.

Sì, l’abbiamo già fatto altre volte. Jon adora il nostro primo album, credo che sia l’unica persona sulla terra ad apprezzarlo e voleva anche che ne facessimo una registrazione migliore (risate). Perciò, quando decidemmo di invitarlo a fare un pezzo con noi, giusto per rimarcare l’amicizia che ci lega, lui scelse un brano proprio dal primo album (March of the 1000 Volt Ghost). E ci piace vedere come se la gode a cantarlo, ogni volta è sempre una bella esperienza, si crea una grande alchimia…
E soprattutto posso concentrarmi sulla batteria! (nota di Marty, il batterista)
Credo che se vivessimo nello stesso paese potremmo portare la nostra collaborazione a qualcosa di ancora più concreto.

C’è un pezzo su Future Echo Returns che mi ha particolarmente colpito, ed è Supernothing: secondo me si tratta di un pezzo brillante, ha tutto ciò che serve per essere un perfetto pezzo doom, però condensato però in tre minuti e mezzo. Come l’avete realizzato?

Generalmente, quando mi viene in mente un bel riff lo registro col mio telefono e riascoltandolo il mio pensiero fisso è “ah, devo aggiungere altre parti, costruirci attorno un po’...”. Stavolta quando l’ho fatto ascoltare a Chris e Marty loro hanno detto che solo "Stop, va già benissimo così"... sai quando ascolti qualcosa e senti che in realtà non ha bisogno d’altro, è già strutturalmente perfetto.
Mentre scrivevo i pezzi per questo disco ho ripreso ad ascoltare molto hardcore, cosa che non facevo da un po’ di tempo… e mi sono chiesto come sarebbe stato scrivere pezzi così brevi, ma mantenendo il nostro stile. A tutti piace Dopesmoker o gli Yob, ma alle volte sembra che il punto centrale di alcuni brani sia esclusivamente la loro durata. Perciò, a mò di sfida, abbiamo voluto provare ad andare nella direzione opposta, provare a scrivere dei brani pesanti, ma con il minutaggio più corto possibile.

Almeno per quanto riguarda la parte dell’arwork, sembra che ci sia una sorta di filo rosso concettuale che lega Estron a Future Echo Returns.

In realtà anche A Hocht fa parte di questa serie, sono stati concepiti come una trilogia. C’è effettivamente una narrativa a legarli tra loro, è un concept di un tre album, ma non ci piace parlarne, sarebbe come privare l’ascoltatore dell’opportunità di creare la sua storia intorno a gli album. Molti recensori e molti ascoltatori hanno notato il flusso narrativo che abbiamo cercato di creare e abbiamo ricevuto dei bellissimi messaggi sui social da parte di persone che ci hanno scritto le loro impressioni circa i temi dei vari album… non pensavamo ci fosse gente disposta a spendere il proprio tempo per farlo. In ogni caso, questa trilogia è finita, perciò qualsiasi cosa faremo successivamente sarà da intendere come a sè stante.

A tal proposito, avete già iniziato a lavorare a qualcosa di nuovo?

Abbiamo già registrato un nuovo pezzo per la colonna sonora del film The Planet of Doom e abbiamo intenzione di recarci allo Skyhammer Studio a novembre per registrare del materiale che uscirà in uno split, previsto per il 2018 su Black Bow Records. Contestualmente inizieremo a lavorare sul nuovo album, che credo registreremo durante l’estate dello stesso anno in modo da farlo uscire verso la fine del 2018. Siamo molto fiduciosi circa il nostro nuovo repertorio, ci sembra molto valido perciò… non allontanatevi troppo.

Spesso viene usata la definizione di space doom per parlare del vostro sound. La ritenete adeguata?

Non saprei, non ragioniamo in termini di genere. Quando mi chiedono che tipo di musica facciamo solitamente rispondo che siamo una band heavy rock, ma probabilmente non è una buona risposta, visto che pensano a Bon Jovi (risate). Non ci capita mai di scrivere una canzone e di pensare che non rientri nel nostro genere, preferiamo limitarci ad assecondare i nostri gusti. Non è un’attività con cui paghiamo le bollette, perciò possiamo permetterci di fare quello ci piace, il fatto che altre persone apprezzino è semplicemente un valore aggiunto.

Com’è attualmente la scena underground nell’Irlanda del Nord?

C’è un sacco di buona musica, ma essendo distante dal resto dell’Europa è difficile che attraversi i suoi confini. C’è molta varietà stilistica, soprattutto a Belfast, l’unica critica che potrei muovere è che difficilmente le varie sottoculture si mischiano. Gli appassionati del metal vanno solo ai concerti metal, e via dicendo. Il bello di un festival come il Roadburn è poter sentire così tanti generi differenti, il cui unico fattore comune è essere buona musica a prescindere dallo stile.

Qualcosa da dire ai vostri fan italiani, per concludere l’intervista?

Siamo grati a tutti quelli che seguono, apprezzano e supportano la nostra musica, sapere che abbiamo fan in varie parti del mondo ci onora sempre. Credo che la parola giusta per esprimere tutto questo sia: “Grazie!” (in italiano, ndr)


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