mercoledì 28 gennaio 2015

LORD DYING: Poisoned Altars (Review)

SLUDGE
Non dal solo South proviene lo sludge.
E questo lo dimostrano i Lord Dying, band proveniente dall’Oregon, terra ricca di fiumi, boschi e terre incontaminate (e di castori, tanto da essere stata soprannominata “Beaver State”, lo “stato dei castori” appunto). Il nome del paese da cui i nostri sono emersi ha però un’altra storia. Esso deriverebbe infatti dal francese “ouragan” (uragano), epiteto che i cacciatori di pellicce francesi avrebbero dato al fiume Columbia per via delle sue acque assai impetuose. A sua volta, questo termine sarebbe stato ereditato dallo spagnolo “huracán”: Huracan era anche il dio del vento e delle tempeste nella mitologia maya, colui che personificava lo spirito vitale della creazione, nonché il dio che inviò sulla terra il “Gran Diluvio”.
Così come la “dea” Katrina ha riversato tutta la sua furia su un’intera regione, la Louisiana, spazzando via gran parte della sua capitale, così l’Oregon conosce i venti impetuosi e selvaggi che percorrono le sue vaste distese, contornate da montagne e altipiani. Il nord e il sud americano, profondamente diversi per mentalità, si ritrovano legati insieme da questo doppio filo, invisibile come il vento ma potente come un uragano.
Lo stile dei Lord Dying, come quello dei Red Fang, Stoneburner, Lumbar e di altre bands di quella zona, è il suono della natura selvaggia, della ferocia senza pietà, degli animali che si aggirano affamati per i fitti boschi con occhi luccicanti nella notte: la musica è specchio di questo scenario, profondamente diversa da quella creata dai gruppi più strettamente South, dove il blues è il suono (e l’attitudine) per invocare un dio sordo a qualsiasi sofferenza di quella terra.
L’altare dal quale i Lord Dying celebrano il loro rito è dedicato ad una divinità malevola e malsana, proprio come il giro di chitarre con cui si apre "Poisoned Altars": da questo momento in poi la parola “pesantezza” suggellerà ogni singola nota. La title-track è perfetta nella sua semplicità nell’introdurci al cerimoniale, ma questa semplicità delle strutture dei brani sarà un’arma a doppio taglio per i Lord Dying. Da un lato, infatti, la band riesce ad essere tremendamente diretta e violenta, riuscendo perfettamente nell’intento che questa musica vuole trasmettere: scapocciare facendosi inondare dalla massa e dal volume del suono. Il trittico formato da “A Wound Outside of Time”, “An Open Sore” (con la partecipazione di Aaron Beam dei Red Fang alla voce) ed “Offering Pain (and an Open Minded Center)” sono la dimostrazione di come si possano unire groove e pesantezza, azzeccando anche qualche bella melodia. Dall’altra parte però, quella semplicità, che se ben usata dà i suoi frutti, rischia di appiattire i pezzi, sacrificandone l’atmosfera. Si rischia allora di arrivare alla fine di “Poisoned Altars” senza neanche essersene resi conto, come se si fosse ascoltata un’unica sola canzone. I debiti nei confronti degli High On Fire, soprattutto degli ultimi due dischi, e dei Crowbar vengono pagati a caro prezzo in termini di personalità: questo era anche il grosso limite di “Summon the Faithless”, giustificato però dall’essere un esordio. Ad allontanare, senza eliminare, lo spauracchio della monotonia ci pensano due brani in particolare, i migliori dell’opera: “Suckling at the Teat of a Shebeast” e “Darkness Remains”. Qui il veleno distillato dalle vene della dea è infuso in maniera più decisa nel corpo delle canzoni: non c’è solo cattiveria e pesantezza ma anche una maggiore cura degli arrangiamenti e dei particolari, come gli assoli, che portano un maggior dinamismo ad un disco che altrimenti rischierebbe di rimanere intrappolato all’interno degli schemi del genere. A parere di chi scrive, se il gruppo vorrà crescere potrebbe imboccare in futuro la strada che i due pezzi sopraccitati hanno saputo indicare, visto che hanno spinto i Lord Dying a dare il massimo delle loro attuali capacità.
In definitiva, “Poisoned Altars” farà indubbiamente felici i fan dello sludge e della band, somministrando poco più di una mezz’oretta (a dire il vero, abbastanza poco) di letale e acido veleno. Non basta comunque una (pur sempre ottima) produzione ad opera di Joel Grind dei Toxic Holocaust, con chitarroni al limite del death metal e batteria a carro armato, ed un contratto con una major come la Relapse. La band del panciuto Erik Olson ha delle ottime capacità che possono portare a risultati superiori, ed in parte l’album lo conferma: spetta a loro decidere se affilare il loro pungiglione avvelenato o bere impassibili la cicuta.



TRACKLIST:
  1. Poisoned Altars
  2. The Clearing at the End of the Path
  3. A Wound Outside of Time
  4. An Open Sore
  5. Offering Pain (and an Open Minded Center)
  6. Suckling at the Teat of a Shebeast
  7. (All Hope of a New Days)...Extinguished
  8. Darkness Remains
INFO:
ANNO: 2015
LABEL: Relapse Records



Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...